“Il martedì di giugno in cui fu assassinato, l’architetto Garrone guardò l’ora molte volte. Aveva cominciato aprendo gli occhi nell’oscurità fonda della sua camera, dove la finestra ben tappata non lasciava filtrare il minimo raggio. Mentre la sua mano, maldestra per impazienza, risaliva lungo le anse del cordoncino cercando l’interruttore, l’architetto era stato preso dalla paura irragionevole che fosse tardissimo, che l’ora della telefonata fosse già passata. Ma non erano ancora le nove, aveva visto con stupore; per lui, che di solito dormiva fino alle dieci e oltre, era un chiaro sintomo di nervosismo, di apprensione.”

Comincia così il romanzo “La donna della domenica” di Fruttero e Lucentini, del 1972, mettendo subito il lettore di fronte all’assassinio attorno al quale si sviluppa la trama. Non sono un’amante dei gialli, ma questo, oltre ad essere un esempio perfetto nel suo genere (credo sia comunemente considerato uno dei migliori gialli scritti da autori italiani), è, in realtà, molto di più. La trama “gialla”, lo sviluppo delle indagini, i misteri, i colpi di scena, insomma tutti gli ingredienti sono dosati con maestria dai due autori – uno dei migliori esempi di scrittura a quattro mani ben riuscita – per arrivare a confezionare un plot che prende il lettore fin dall’inizio. Ma questo romanzo è qualcosa di più di un ottimo giallo: è un affresco realistico e spietato della società e dei suoi vizi; dell’impoverimento dei rapporti tra le persone, dell’interesse più per le apparenze che per la realtà, dell’accanita difesa dei privilegi sociali e della ricchezza, del nostalgico condannare gli scandali della società moderna per poi entrare a farne parte.

La storia è ambientata nella Torino degli anni Settanta che, a mio avviso, è resa in modo magistrale. È la Torino dove ancora forte si sente il distacco tra i vari ceti sociali: i ricchi industriali alto-borghesi da un lato, gli operai perlopiù immigrati dalle regioni del sud, una piccola borghesia impiegatizia alle dipendenze della elite imprenditoriale. Quanto queste componenti della società siano distanti è palpabile e rende pesante l’atmosfera di una città le cui dimensioni fanno sì che, soprattutto a certi livelli, tutti sappiano tutto degli altri e il timore di pettegolezzi, spesso, faccia assumere comportamenti bizzarri.

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A questa elite appartiene Anna Carla Dosio, moglie di uno dei più ricchi e noti industriali della città.

 

“Sono giovane – si provò ad elencare Anna Carla – sono intelligente, sono ricca. Ho un ottimo marito (ricco anche lui), e una figlia bellissima (come me, dicono). Riesco simpatica a tutti, mi vesto bene, non ho problemi di linea, non ho problemi sessuali.. (…) Sono la moglie di un capitalista figlio di capitalisti e nipote di capitalisti – provò a pensare in senso inverso – sono piena di abitudini e pregiudizi borghesi e priva di ogni coscienza sociale e politica. Non m’interesso alle tristi condizioni dei carcerati, dei ricoverati in manicomio, degli spastici e dei popoli sottosviluppati, e i cinesi, se devo essere sincera, me li figuro sempre con il codino e le mani infilate nelle maniche di una casacca ricamata a draghi. Non ho speciali talenti o capacità, non saprei dipingere stoffe per arredamento (come Maria Pia), inventare soprammobili di latta (come Dedè), vincere un torneo di golf o di bridge (come nessuna delle mie amiche: ma almeno loro ci provano), e se mettessi su una boutique o una galleria d’arte la farei fallire in due mesi. La mia vita è vuota, inutile, frivola.”

Questo è il ritratto che Anna Carla fa di sé all’inizio del romanzo, come a mettere in guardia il lettore rispetto a cosa aspettarsi da lei. In realtà, andando avanti nella storia, la figura di questa donna, bella e raffinata, annoiata da un menage matrimoniale fondato sulla menzogna e sull’ipocrita finzione di interesse, riserverà parecchie sorprese, svelandosi via via come un’affascinante “dark lady”.

donna-domenica-3L’architetto Garrone, che ben presto si svela essere un individuo squallido e profittatore, viene ritrovato morto nel suo studio: ha il cranio sfondato da un oggetto artistico bizzarro, un fallo di pietra.

“Il colpo alla porta fu così discreto che, dopo essere scattato in piedi, restò un attimo immobile pensando di essersi sbagliato. Non aveva neanche sentito i passi nell’androne. Avanzò dubitoso, e aprì ancora senza credere, ancora trattenuto dal molle e tenace vischio d’innumerevoli delusioni. Le mani gli tremavano, e sulle prime, nella penombra, quasi non riconobbe la persona che aspettava. Poi un largo sorriso incise sulla sua faccia fitti ventagli di rughe.”

Nel cestino della camera di Anna Carla, invece, i suoi domestici trovano alcune lettere strappate e appallottolate, tra cui una che diverrà determinante per le indagini sul delitto:

Caro Massimo, ti ho sempre saputo capace di qualsiasi bassezza, ma permettimi di dirti che quella di ieri sera è stata la più…”

 “io dell’architetto Garrone ne ho abbastanza. Tutti i giorni è troppo. Omicidio rituale o no, facciamolo fuori sul serio una buona volta. Ci guadagneremo tutti e due.”

L’architetto Garrone, con i suoi ricatti e imbrogli, si era fatto molti nemici e queste parole sembrano sufficienti ad imbastire un’accusa, per Anna Carla e Massimo Campi – erede di una prestigiosa famiglia torinese e amico del cuore di Anna Carla – da parte del commissario De Palma e del suo collega, commissario Santamaria. Anche se in realtà dietro ad esse, si nasconde un gioco teatrale che i due solevano fare, ma che risulta poco credibile allo stato dei fatti; ciò che intendevano era eliminare Garrone dal loro giro di amicizie e dal diverbio sulla corretta pronuncia inglese della parola Boston. Il commissario Santamaria, sanguigno e affascinate uomo del sud, parte da qui per indagare sul delitto, anche se non crederà mai fino fondo alla colpevolezza dei due, un po’ perché sembrerebbe fin troppo plateale, un po’ perché il fascino di Anna Carla lo turba. Anna Carla e Massimo, lei più per gioco, lui seriamente, si interrogano a loro volta su chi potrebbe avere assassinato il Garrone.

Nonostante le pressioni a risolvere in fretta il delitto, nonostante una serie di episodi cruenti, nonostante i turbamenti della relazione con la sospettata Anna Carla, il commissario Santamaria riesce a mantenere ferma la guida delle indagini e ad arrivare, grazie ad una geniale intuizione, alla risoluzione del caso.

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Come dicevo all’inizio, se pure alla base della trama stanno il delitto e la sua risoluzione, la lettura è impreziosita dalla resa magistrale dell’”ambiente” (come a pag 58), del clima salottiero e mendace della Torino bene, delle sue idiosincrasie, delle abitudini condivise – un esempio: il recarsi al mercato del Balùn il sabato, le gallerie d’arte, i cinema – e di quelle nascoste – le frequentazioni notturne e segrete con le prostitute. Il racconto si snoda intrigante e anche divertente, a tratti, laddove lo sguardo disincantato e la sottile ironia, sollevano la storia dal mero plot giallo, portandola su un gradino più elevato, quello del romanzo d’ambiente.

la-donna-della-domenica-filmIl romanzo ebbe un enorme successo immediatamente ed infatti nel 1975 divenne un film altrettanto famoso, per la regia di Luigi Comencini. Nei panni di Anna Carla una splendida Jacqueline Bisset, l’affascinante commissario Santamaria non poteva che essere interpretato da Marcello Mastroianni, il ruolo di Massimo fu affidato a Jean Louis Trintignant. E poi un cast d’eccezione, che raccolse i più noti volti dell’epoca: Pino Caruso nei panni del commissario De Palma, Lina Volonghi (con un ruolo chiave), Aldo Reggiani, Tina Lattanzi, Claudio Gora nei panni dell’architetto Garrone e Gigi Ballista nei panni dell’antiquario Vollero. Musiche d’eccezione per mano del maestro Ennio Morricone.

Nel 2011 la Rai ha anche realizzato una miniserie che ha riscosso un discreto successo.

Ecco alcuni assaggi:

“Il commissario Santamaria, con le mani dietro la schiena, stava guardando fuori dalla finestra aperta sul corso. Dopo una passata di vento stamattina, un’aria di nuovo ferma, una giornata di nuovo troppo calda, appiccicosa, perlomeno rispetto al vestito che lui portava. Gli operai che lavoravano sul controviale, dentro una larga fossa scavata nell’asfalto, erano tutti in canottiera e avevano le spalle lucide di sudore. Una perforatrice continuava implacabile ad allungare la fossa verso il portone centrale della questura. Il gas, probabilmente. O l’acqua. Era sempre così. La città usciva dal fango, dalla pioggia, dall’estenuante e sudicia costrizione di un inverno che si trascinava fino a giugno, per coprirsi subito di una spinosità ancora più faticosa di lavori in corso. Irta, scostante di nuovo. E in quell’assordante, ubiqua, frenesia di restauri, ogni velleità di meridionale abbandono era stroncata sul nascere. Non che lui, veramente, avesse spesso il tempo o la voglia di mettersi a leggere il giornale su una panchina, di passeggiare lungo i viali con la giacca sbottonata, di fermarsi su un angolo a guardare senza impegno una piazza; ma gli dispiaceva pensare che in ogni caso sarebbe stato impossibile.”

“Improvvisamente esilarato, Massimo s’inoltrò nelle fungose, sepolcrali viuzze della città vecchia: lui stesso, mentre rimproverava agli altri la loro cecità, ecco che stava scivolando chiotto chiotto, come in una casa equivoca, nel rimpianto dei bei tempi andati, nella nostalgia dell’immobilità, nella celebrazione sentimentale di un ordine, di uno stile, mai, probabilmente, esistiti davvero. La specchiera falso Settecento nella polverosa vetrina di un rigattiere gli svelò una verità così ovvia da riuscire irresistibilmente comica: un torinese, che pensava lagnosi pensieri torinesi, e già tendeva all’eccentricità, a ridere da solo per strada.”