“L’imperatore di Portugallia”, di Selma Lagerlöf, Iperborea
Ho scelto questo romanzo, scritto nel 1914, per conoscere l’autrice: la prima donna della storia ad essere insignita del premio Nobel per la letteratura, nel 1909. Un romanzo, dunque, che appartiene alla fase più matura della sua produzione.
Lagerlöf visse a cavallo tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento, pubblicò il suo primo romanzo a trentadue anni, divenendo subito popolare, lavorò instancabilmente come maestra e con i proventi delle sue pubblicazioni ricomprò una proprietà di famiglia che era stata venduta a causa delle difficoltà economiche e che per lei rappresentava la sua infanzia. I ricordi degli anni trascorsi in quella tenuta, densi di racconti ascoltati da bambina, sono il terreno fertile su cui la scrittrice ha fatto germogliare i suoi romanzi. Anche l’ambientazione geografica e paesaggistica in cui la storia si sviluppa rispecchia i luoghi della sua gioventù. Era infatti nata nel Värmland, una regione della Svezia situata al confine con la Norvegia e caratterizzata da laghi, boschi di betulle, e zone aride: esattamente il paesaggio che troviamo nel romanzo.
La storia è collocata nella provincia svedese della prima metà dell’Ottocento: l’ambiente contadino e le nette divisioni sociali tra i braccianti e i proprietari terrieri; le umili abitazioni dei contadini contrapposte alle ricche dimore dei signori, le autorità religiose e militari, le tradizioni popolari.
La cifra personale di Selma Lagerlöf si rivela nell’atmosfera ovattata e delicata con cui riesce a narrare una storia che contiene in sé la dolce faccia dell’amore immenso di un padre per sua figlia, e la faccia amarissima della sua perdizione.
“Klara Fina Gulleborg! Ma è un nome troppo grandioso”
Il racconto ha come protagonista Jan, un povero contadino che vede riscattate le amarezze della sua umile vita dalla nascita della figlia, che accenderà di un amore sconfinato il suo cuore. Lei che nel suo nome porta la luce e la bellezza, perché è il sole che le ha fatto da padrino.
“Ma Jan di Skrolycka era stupefatto di se stesso: che si fosse potuto inventare una cosa tanto bella come prendere il sole per padrino. Sì, era proprio diventato un altro dal momento in cui la bimbetta gli era stata messa tra le braccia.”
L’amore paterno si accresce col passare del tempo, mentre la bimba compie gesti che lasciano stupefatti, lasciandone presagire una sensibilità ed una grandezza inconsueta, foriera di un grande destino che l’aspetta nel mondo. E l’amore del padre è ricambiato dalla figlioletta, con cui vive quasi in simbiosi per anni, lasciando alla madre Kattrinna un ruolo quasi da comprimaria.
Gli episodi della loro vita, illuminati dalla presenza e dalle gesta della piccola, sono narrati con stupore e quasi se ne avverte un’aura magica, come se le fossero stati dati in dono poteri che vanno al di là dell’umana mediocrità.
La bella favola, però, cambia completamente registro quando le difficoltà economiche e la voglia di Klara di evadere dalle angustia della loro povera condizione, la spingono a partire alla volta di Stoccolma. L’augurio del padre, triste per la sua partenza è che la separazione duri poco e che Klara possa tornare a casa al più presto. Allo scadere del termine prefissato passerà, invano, i suoi giorni sul pontile ad attendere il battello che dovrebbe riportare a casa la figlia.
Passano molti anni e di Klara non si hanno notizie, si attende di ricevere una lettera o di rivederla comparire; in paese corre voce che abbia fatto una brutta fine e a Jan non resta che entrare nel mondo della fantasia per sopravvivere al suo struggimento. E in questo modo, riesce a leggere ogni episodio come un chiaro indizio dei messaggi che lei gli sta mandando, per anticipare la grandezza del suo ritorno. Kattrinna, sua moglie, che all’inizio era sconcertata dal suo comportamento, pian piano capisce i suoi sforzi e intravede la capacità di Jan di guardare i fatti secondo una prospettiva del tutto diversa ma che, in fondo, nasconde una saggezza inaspettata. Alla gente che lo conosce sembra impazzito, ma in realtà ha solo trovato l’unico modo possibile per non soccombere. Kattrinna lo difende:
«Jan non è matto», disse. «Il Signore gli ha posto uno schermo davanti agli occhi, perché non veda quello che non sopporterebbe di vedere. E di questo non si può che essere riconoscenti.»
E allora, Jan attende il ritorno della figlia, che nel mondo ha fatto così tanta fortuna da diventare l’imperatrice di Portugallia e da far assurgere il suo umile padre al ruolo di imperatore di Portugallia.
In conclusione, si tratta di un romanzo fortemente permeato dalla visione della Lagerlöf: la fede nel bene come atto superiore, nell’amore come forza capace di reggere le sorti delle persone anche nelle avversità, il senso di religiosità profonda, l’afflato sociale ed umano rivolto alle classi più umili, che appaiono depositarie di semplicità ma anche di saggezza contadina e di buon cuore.
Copio il link alla CE; l’incipit potete leggerlo qui.
L’immaginazione come antidoto al dolore, se non ho compreso male. Quanti autori del nord Europa da scoprire!
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Esatto, Alessandra; una rilettura della realtà a cui vengono dati connotati diversi, quasi favolosi. Aggiungo che la scrittura della L. è di una lievità davvero unica.
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“Quando a un acuto dolore segue la più acuta fantasia” canta Ivano Fossati, e a me è sempre sembrata la migliore definizione della pazzia.
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In questo caso, nella pazzia di Jan si nasconde una verità profonda, e cioè che l’amore è l’unica lente attraverso la quale si può guardare una realtà così dolorosa che altrimenti annienterebbe l’individuo.
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Di Selma Lagerlöf ho letto solo i racconti e questo romanzo non lo conoscevo. Ma lo leggerò senz’altro perché amo questa scrittrice. Sa tradurre le leggende in un suo modo unico. Grazie della recensione
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In questo romanzo racconta una storia dove il confine tra realtà e fantasia è un filo molto sottile. E lo fa in modo delicato e originale.
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Molto interessante. Questa tua recensione mi ha scatenato pensieri, richiami, molto diversi.
Iperborea sta regalandoci opere importanti. Ed è particolarmente importante recuperare, da un romanziere, qualcosa che, in seguito, si conoscerà, in parte (ma come!, vien da dire, si sapeva benissimo, ne parlano i romanzieri!), attraverso la (cosiddetta) psichiatria, e l’opera preziosa di Laing sull’insicurezza ontologica che porta la persona, quando la realtà è insostenibile, a fuggirla e ristrutturarla. Purché non la si chiami, appunto, malattia, pazzia, o quant’altro, ma solo sofferenza umana.
E nonostante tutto, ancora, sempre, ci si difende dal dolore degli altri con un’etichetta – malato di mente – come se esistessero i sani e non invece il dolore, la fantasia e le sue risorse.
Leggerò sicuramente questo libro.
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ti ringrazio per questa riflessione. il tema del dolore e di come fare a non soccombere è centrale in questo racconto. Lagerlof trova la sua via attraverso l’utilizzo della fantasia, della trasposizione tra mondo reale e mondo desiderato…
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Mi incuriosisce molto il personaggio di Jan e l’elemento quasi fiabesco che sembra emergere nel libro.
Comunque ti rinnovo i miei complimenti: sei una miniera di ricchezze!
Un abbraccio
Adriana
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grazie; devo dire che il catalogo di Iperborea contiene molti bei libri
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Ciao, sono passata per una visita… e mi si è spalancato un universo di bellezza in parole ed evocazioni!
Grazie!
Torno presto,
Vicky
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Ti ringrazio! verrò a trovarti… così ci conosciamo!
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Sarà un piacere!
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