Peccato! Ho finito di leggere anche Canto della pianura”, di Kent Haruf, NNEditore; seconda parte della “Trilogia della pianura”, l’ho fatto mio dopo avere letto “Benedizione” post.  E, proprio da questo titolo, prendo spunto per dire: benedetto Kent Haruf, benedetta NNE e benedetto Fabio Cremonesi.

Sono tornata a Holt, in Colorado e ho ritrovato la pianura sconfinata battuta dal freddo vento invernale:

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“Fuori, il vento era aumentato rispetto al pomeriggio. Lo sentivano ululare attorno alla casa, gemere e rumoreggiare fra gli alberi spogli. La neve farinosa, sollevata dal vento, passava davanti alle finestre e sfrecciava in raffiche improvvise attraverso il cortile gelato, alla luce di un fanale appeso a un palo del telefono sul retro. Candidi, vorticosi mulinelli nella luce azzurrina.”

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Ho ritrovato l’assolata e polverosa scacchiera di strade, disegnate con la squadra e il righello, senza curve e tutte uguali a perdersi in lontananza, le fattorie disseminate in campagna, i capi di bestiame, i silos dei cereali, l’Holt Cafè, il fast food Shattuck’s, l’Holt Mercury, il giornale locale. E, soprattutto, gli abitanti.

I romanzi di Kent Haruf sono epifanie della vita comune: la scrittura punta i riflettori su esistenze normali, le mette in risalto dando contemporaneamente corpo alle ombre che dietro di loro la luce va creando, e agli scintillii dei semplici gesti. Il ritmo veloce è dettato dal susseguirsi dei brevi capitoli dove ciascun personaggio è messo a fuoco e le sue vicende si dipanano davanti agli occhi del lettore, in un sapiente alternarsi di dialoghi, descrizioni e immagini.

“Il cielo era sereno in quel luminoso inizio di giornata, l’aria fresca e pungente, Guthrie provò una breve sensazione di benessere e fiducia. Prese una sigaretta dalla tasca, la accese e rimase per un attimo a fissare il pioppo bianco. Poi salì sul furgone, mise in moto e, uscito dal vialetto, imboccò Railroad Street e percorse i cinque o sei isolati che lo separavano dalla Main. Alle sue spalle, il furgone sollevava una nube di polvere e le particelle sospese brillavano come granelli d’oro nel sole.”

Tom Guthrie è un professore di liceo, non ha un buon rapporto col preside, ha le sue grane con uno studente e la sua famiglia, ma soprattutto ha due figli di nove e dieci anni, Ike e Bobby, di cui deve prendersi cura perché la moglie, Ella – una donna sottile, come intrappolata in un pensiero o un atteggiamento ineluttabile -, non riesce a farlo lei stessa, vittima del “mal di vivere” che la rende depressa e fuori posto ovunque.

Ike e Bobby ogni mattina, prima di andare a scuola, inforcano le loro biciclette e fanno il giro delle consegne dei giornali che arrivano col treno; sono svegli e curiosi, capaci di badare a se stessi, incerti su come affrontare il malessere della mamma, spavaldi nel non farsi intimorire dai bulli più grandi. Passano molto tempo da soli sulle strade di Holt, o nella campagna, e imparano a scoprire come va la vita con gli occhi avidi che l’età mette loro a disposizione.

Poi c’è Victoria – occhi e capelli neri, un padre sparito – la studentessa diciassettenne che ingenuamente resta incinta e, invece di trovare sostegno nella madre a cui chiede aiuto, si ritrova buttata fuori di casa.

colorado fattoria

Ci sono i due anziani fratelli McPheron, Raymond e Harold, scapoli – Bobby pensa che non si siano mai sposati per non doversi lasciare – invecchiati nella fattoria dove sono nati e cresciuti, solo loro due da quando sono rimasti orfani, due allevatori dai modi asciutti e rozzi, con un grande cuore, capaci del più generoso gesto d’amore.

E poi c’è Maggie Jones, insegnante presso il liceo frequentato da Victoria, collega di Guthrie: lei è il deus ex machina, il direttore d’orchestra che, con la sua bacchetta, dirige gli eventi, indirizzando i destini dei protagonisti, incanalando le loro vite in modo da farle incontrare e procedere assieme. La sua presenza forte, razionale, rassicurante è come un collante che riesce a fare aderire le superfici apparentemente discordanti e respingenti.

“A volte non sono sicuro di sapere come comportarmi con te. – dice Guthrie a Maggie – Perché sei diversa da tutte le altre. (..) Sembra che la vita non ti abbia mai sconfitta o impaurita. Sei sempre cristallina, qualunque cosa accada.”

I protagonisti di questo bellissimo romanzo rappresentano la vita: dal bambino che Victoria porta in grembo, ai piccoli Ike e Bobby, agli adolescenti del liceo, a Victoria che di colpo deve diventare grande, agli adulti Tom, Ella, Maggie, ai vecchi fratelli e all’inferma signora Stearns. E così via, fino a tutti personaggi che popolano la cittadina e che in un’opera corale come questa, non sono minori ma comprimari perché rappresentano la comunità, con i suoi lati positivi e negativi. E la maestria di Haruf sta nel rendere i loro mondi separati un unico sistema solare, un complesso e armonico sistema che gira nella stessa direzione, illuminato e riscaldato dai sentimenti fondanti l’identità umana.

“Era domenica. Una giornata fredda e luminosa, con la neve ancora scintillante come vetro sotto il sole e il vento che soffiava come al solito, in raffiche improvvise ma regolari, tanto che quando varcarono i confini della cittadina, fuori era come il giorno prima, a parte il vento, che nella notte aveva cambiato direzione. Le mucche, le stesse ispide, spelacchiate mucche nere del giorno prima, sparpagliate nei campi di stoppie di granturco, erano ancora là, come se durante la notte, quando il vento era cambiato, tutte le bestie insieme avessero obbedito all’ordine “Fianco destro!” e poi avessero continuato a leccare il granturco sparso per terra, avvolgendo la lingua attorno alle pannocchie secche, sollevando la testa e fissando in lontananza, senza smettere di masticare tranquillamente.”

Ora, ditemi se non vi sembra di vedere questa scena con i vostri occhi, mentre guardate fuori dal finestrino!

“Plainsong” è stato tradotto da Fabio Cremonesi in “Canto della pianura”; ecco la sua nota esplicativa:

“Il termine inglese Plainsong, che dà il titolo a questo romanzo, significa ‘canto piano’ (forma di canto a cappella monodico – ossia privo di accompagnamento musicale ed eseguito all’unisono – diffuso nel Medioevo in ambito ecclesiastico; il Canto Gregoriano, per esempio, è un tipo di canto piano), oppure si può utilizzare per riferirsi a qualsiasi melodia o motivo musicale semplice e sobrio; nel contesto di questo romanzo, il termine evoca anche un terzo concetto, più un’immagine che un significato in senso stretto: ‘canto della pianura’”.

 E per restare in tema di musica, vi consiglio di dare un occhio, e un orecchio, al Songbook del romanzo; trovate tutto sul link alla pagina dell’editore che vedete:

http://www.nneditore.it/libri/canto-della-pianura/

Potete leggere l’incipit qui.

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Qui potete leggere il post relativo a “Crepuscolo”